IL MANUALE IMPROBABILE
DI STORIA DELL'ARTE

VIDEOFAIRIES

Con la videoarte ho sempre avuto un rapporto conflittuale, tipo conflitto internazionale di quelli che necessitano dell’intervento di un contingente di pace.
Non che sia solo colpa mia, e anche se lo fosse non lo ammetterei mai. La colpa è tutta dei video che mi capitava di vedere alle mostre, il cui soggetto principale sembrava essere “goccia d’acqua che cade in un contenitore pieno d’acqua” con varianti di liquido (latte nel latte, acqua nel latte, latte nell’acqua, olio da motori nello Chanel n°5, inchiostro nel chiostro…)
Dopo aver assistito alla caduta di circa dodici milioni di gocce che producevano identici effetti, capite bene che il mio interesse per i video era latitante come un narcotrafficante colombiano a Bogotà, e quando mi capitava di udire in lontananza il ronzio ipnotico di un proiettore mi tenevo accuratamente alla larga.
Il tempo è passato, io sono invecchiata e a causa del noto principio di compensazione geriatrica, ho realizzato che dovevo assolutamente aggiornare le mie scarse conoscenze sulla videoarte, dedicandomi all’approfondimento di questa nuova forma espressiva…lo so che la videoarte non è nuova, ha esattamente la mia età, ma il percorso di evoluzione dell’arte che ognuno di noi segue non coincide necessariamente con il sommario dell’Argan. E’ in parte comprensibile che i manuali siano impostati secondo una concezione del tempo lineare pre-einsteniana, ma anche se questa organizzazione risulta più pratica, tende a dare un’idea semplicistica dello sviluppo dell’arte, e questo potrebbe portare qualcuno a credere che le forme artistiche cronologicamente più recenti sono quelle alle quali ci si deve ispirare per realizzare un lavoro attuale.
Per fortuna l’arte non percorre una linea retta, così possiamo muoverci liberamente nel suo universo parallelo e individuare il nostro retaggio ideale in ogni tempo e in ogni luogo.
Ad esempio nel mio caso ho scelto come referente Leonardo (però non diteglielo, non credo sarebbe entusiasta di avere un’adepta come me). Forse vi sembrerà antiquato ma io ho conosciuto gente messa molto peggio, tipo la mia professoressa di storia dell’arte del liceo.
La signorina Bariola all’epoca era un’adorabile vecchietta che in teoria avrebbe dovuto fornire a noi giovani & ingenui ginnasiali una rapida ma esaustiva visione dell’arte occidentale. Durante i due anni del suo corso ha fatto solo ed esclusivamente il tempio greco. La scultura per lei era troppo fatua, tollerava a malapena Fidia, mentre considerava Scopas col suo pathos, addirittura un dadaista. La perfezione era rappresentata dalla colonna ionica, la rastrematura il traguardo supremo, mentre il capitello corinzio era un’eresia, frutto delle menti perverse di scioperati filobotanici strafatti di acanto. Dei bassorilievi non gliene fregava nulla, tutte quelle divinità, cavalli e drappeggi, servivano solo a distrarre dalla forma essenziale e perfetta del tempio. Per lei i bassorilievi possono restare tranquilli al British Museum in sæcula sæculorum, anzi nel caso fosse sfuggito qualche eroe marmoreo, ci pensa lei a scalpellarlo via per non disturbare le linee della struttura con inutili orpelli.
Adesso che ci penso, la signorina Bariola era una minimalista-concettuale!
Devo riconoscere che sentire tutte le settimane odi ed epodi sul Partenone mi annoiava, e mi sembrava limitato limitare l’arte in modo tanto drastico. Ma oggi, dopo vari ricorsi storici, tendo a rivalutare le idee della Bariola. Il suo atteggiamento forse era bizzarro per un’insegnante ma perfetto per un’artista. La determinata monotonia della profesoressa era quasi una missione, un tentativo di far penetrare nelle nostre capocce di marmo grezzo, l’essenza dell’arte e della bellezza.
Non si interessava a cose prosaiche come i programmi del Ministero della Pubblica Istruzione; da libera pensatrice, aveva deciso che era suo dovere offrirci un’unica perfezione etica ed estetica, piuttosto che una molteplicità di eventi insignificanti, e continuava instancabile anno dopo anno a propinare il tempio greco a ragazzi e ragazze a cui il greco usciva già dalle orecchie.
Il tempio greco era il suo Zahir e ha zahirato ostinatamente i suoi allievi fino alla pensione.
Ma al di là delle posizioni ideologiche, suppongo che a una certa età succeda a tutti di sentirsi antiquati e dire a se stessi: basta, è ora di rimettersi al Fluxus coi tempi!
Così ho coinvolto nei miei progetti anche un’amica con la quale scambiavo mail altamente censurabili. E’ imbarazzante confessare queste cose, ma ormai devo andare fino in fondo: ci raccontavamo a vicenda le mostre che andavamo a vedere, detta così sembra una cosa innocente e mi sembra di sentire i commenti delusi, il fatto è che siamo state davvero poco indulgenti coi poveri artisti, abbiamo recensito senza pietà. Le nostre non erano solo critiche distruttive, abbiamo anche decretato la nascita di un movimento. La cosa per il momento non ha ottenuto l’attenzione che merita, ma siamo fiduciose nella nostra analisi dei segnali provenienti da alcuni giovani esponenti della scena artistica underground. Sappiamo bene che sovente la storia nega il successo immediato proprio alle intuizioni più significative, ma non ci diamo per vinte e perseveriamo nel sostenere le nostre idee.
Ad imperitura memoria vorrei raccontare brevemente la genesi di questo stravolgimento artistico epocale. Un giorno questa amica mi ha scritto di una mostra, dove un artista aveva realizzato un dipinto usando un pollo di gomma verniciato di blu come timbro. Lì per lì non facemmo caso alla cosa, tuttavia per una di quelle coincidenze che appaiono fortuite ma che in realtà sono un segno del destino, e solo le menti più audaci riescono a cogliere in tutta la loro valenza, poche settimane dopo anche io ho visitato una mostra dove un artista esponeva le foto di un pollo spennato!
La mia amica non ci credeva… come darle torto? Neanche io avrei creduto a una cosa del genere, a maggior ragione se fossi stata io a raccontarla, visto che qualche volta ho la tendenza a esagerare.
Comunque abbiamo capito immediatamente che un simile avvenimento rappresentava una svolta per il mondo dell’arte; siamo certe che il Pollomortismo diffonderà ovunque le sue istanze di denuncia sociale e di lotta, contro i valori borghesi rassicuranti del pollo vivo.

In quel periodo di critica militante sentivo il dovere di analizzare a fondo tutte le mostre che andavo a vedere, e mi sorbivo… voglio dire “guardavo” attentamente ogni video che mi capitava.
Era l’entusiasmo della neofita, osservavo tutto con profondo stakanovideo. Nelle esposizioni di arte contemporanea facevo indigestione di video e affini; l’inverno scorso a Bologna in un unico evento ne ho visti almeno trenta, preferibilmente in piedi, perché la sofferenza sviluppa la sensibilità e la percezione del significato. Infatti dopo aver girovagato in un palazzo di sette piani con stanze piene di opere ad alto tasso di pixel, si cominciano ad avere le visioni, il che è risultato molto utile per comprendere il lavoro di un artista che ha ripreso se stesso mentre si faceva tagliare i capelli.
Ho meditato e riflettuto sui diversi aspetti presenti in questo lavoro dai significati molteplici e capillari, un’opera che dà un taglio netto alla tradizione, che stabilisce un valore permanente e si pone in aperta frizione col passato, un autentico colpo di sole in un panorama dominato dal riporto. Sono opere come queste che ci sottopongono sfumature alte e tuttavia restano a lungo inestricabili: ho impiegato molto tempo prima di cogliere l’essenza che ora vi rivelo.
L’artista (di cui non ricordo il nome e che mi auguro non leggerà mai le scemenze che scrivo) somiglia a Mel Gibson, e ho percepito che in realtà la sua intenzione era di notificare questo invidiabile dato di fatto all’universo mondo. La cosa è comprensibile, anche io se somigliassi a Audrey Hepburn farei dei video su di me ad imperituro ricordo!
Così, incoraggiata da questa esperienza in cui ho affinato la mia perspicacia, mi accingo ad affrontare la Biennale con Braveheart ed incosciente trasporto. La percentuale di video alla cinquantesima Biennale di Venezia ha proporzioni bibliche, una densità che sfiora quella della popolazione urbana di New Delhi. All’Arsenale c’è un video ogni tre passi, l’Arsenale è praticamente immenso quindi ci sono miliardi di video.
La cosa che mi ha colpito è l’effetto secondario di questa forma espressiva: il rumore. Io ero abituata a vedere mostre con quadri, sculture, installazioni, foto… opere educate che se ne stavano silenziose e quiete. Anche le più agitate come i Mobiles di Calder, si limitavano ad una poetica danza di forme colorate che non faceva più rumore di uno sciame di pesci tropicali.
All’Arsenale invece ogni video aveva la sua legittima colonna sonora che cercava di imporsi sulle altre. Musica, frasi, suoni costantemente ripetuti ottengono un risultato notevole: mi impediscono di pensare.
Una cosa che ho notato, è che i videoartisti si dividono in due correnti filosofiche principali: Stoici ed Epicurei.
Gli Stoici sono quelli che predispongono la proiezione in sale completamente vuote, in cui il fruitore deve stare in piedi oppure sedersi sul pavimento, cosa non certo facile per chi ha superato i sessant’anni e non fa il fachiro di professione.
Altro che dittatura dello spettatore!
Ho provato a fare un golpe per imporre la mia autorità ma non mi è stata concessa nessuna poltrona, e il mio colpo di stato è finito miseramente sul pavimento.
I videoartisti epicurei mettono a disposizione sedie con schienale e quattro piedi.
Tra le due tendenze principali c’è tutta una serie di artisti dubbiosi che hanno escogitato soluzioni di compromesso: alcuni mettono cuscini sul pavimento, altri un unico sgabello a tre piedi altissimo e pericolante… La decisione più indecisa è stata quella architettata da un artista che aveva a disposizione una bella saletta confortevole alla fine dell’Arsenale. Deve avere pensato:
“Quelli che arrivano qui sono già morti, non posso farli sedere per terra… metterò delle panche di legno… sì però stanchi come sono si addormenteranno e non vedranno il mio video… le panche le faccio strettissime e senza schienale… ma quelli sono esausti, vedono queste panchette tanto strette, si deprimono e se ne vanno…allora ci metto i cuscini…”
Risultato: alcuni ragazzi e uno dei custodi esauriti dal caldo, distesi pacificamente sul pavimento dormivano col capino posato sui cuscini colorati!
Proseguendo nella mia videoindagine mi sono resa conto che questa rozza suddivisione è assolutamente sommaria e imprecisa, il termine videoarte è vago come le stelle dell’Orsa. I videoartisti sono diversi, ognuno ha le sue peculiarità, le sue caratteristiche, tanto che per classificarli ci vorrebbe Linneo, anzi visto che la videoarte più attuale è interattiva, forse sarebbe più adatto un Linkneo. Come si può distinguere tra video arte canonica (o meglio catodica), arte multimediale e videoinstallazione? E si può definire videoarte la documentazione di una performance?
Cercando la risposta a questa domanda ho assistito a una rassegna video che si è svolta a Bologna, dove sono stati presentati i video delle performances di Marcel.lì Antunez Roca e Ron Athey.
Marcel.lì è il fondatore di La Fura dels Baus, celebre gruppo dallo stile viscerale. Non si può dire che non abbiano fegato a fare quello che fanno… comunque l’uomo bionico coi tubi non è male, ha un certo swing.
Ron Athey è un energumeno born in the U.S.A coperto di tatuaggi. Nella prima parte del video si presenta disteso su un candido lettino, apre una scatola di legno piena di siringhe e comincia a piantarsele nel braccio. Devo riconoscere che faceva le cose con metodo: partiva dal polso e si infilzava artisticamente le siringhe a zig zag su fino alla spalla. Almeno credo, perché al secondo zag io mi sono affrettata a osservare tutto con gli occhi ermeticamente chiusi. Suppongo che Gina Pane sarebbe lieta di sapere che le giovani generazioni proseguono il suo cammino spinoso, forse però non sarà altrettanto lieta di fronte a quell’esubero di aghi, che fa sembrare la sua storica performance un’action all’acqua di rose.
Athey non si è limitato a rappresentare l’omaggio all’ iniezione. Dopo aver riposto ordinatamente le siringhe, si è infilato nella fronte una dozzina di ferri da calza e si è rimesso a letto.
Nel secondo video Athey compare legato e appeso al soffitto con gli immancabili spiedini in fronte. Se ne sta lì, dondola e brontola mentre un altro psicopatico con guanti da chirurgo e occhiali da Mr. Magoo, si adopra nervosamente per trasformarlo in San Sebastiano. L’assistente gira il povero Ron come un kebab e lo infilza con frecce lunghe 50 centrimetri. La cosa divertente è che prima lo disinfetta. Comunque il video si chiude su Athey che sembra un incrocio tra un puntaspilli tatuato e un salame appeso a stagionare.
La terza performance è la più cruenta. Dopo una scena iniziale in cui, come un illusionista confuso confonde la fase orale con la fase anale, il nostro artista si infila una corona… se la infila in testa… preciso perché Athey è un tipo piuttosto disinvolto quando si tratta di infilare oggetti in luoghi impensati. Dopo essersi incoronato si guarda allo specchio, si accorge che gli stanno spuntando le prime rughe e decide di fare un lifting, ovviamente a modo suo: prende degli ami da pesca da altura ai quali ha legato graziose cordicelle, si pianta gli ami nelle sopracciglia e nelle guance, poi attorciglia le cordicelle ad appositi ganci che si trovano sulla corona, facendo attenzione a tirare bene.
Controlla il risultato allo specchio… perfetto. E’ così soddisfatto che decide di festeggiare sfoggiando un paio di scarpe dorate con zeppa e tacco alto. Naturalmente non possiamo pretendere che Ron abbia un piedino da Cenerentola, così per indossare le scarpe deve mettere un paio di calze. E qui accade la cosa sconvolgente, un’azione orribile e brutale; in nessun video ho mai visto niente di simile. Al cospetto di quest’atto scellerato, sesso, violenza, frattaglie, artisti che mangiano e vomitano sulla testa dei colleghi e topolini bianchi frullati vivi nel latte, sembrano ingenui passatempi infantili. Anche gli altri spettatori hanno avvertito un brivido nonostante fosse il 10 agosto, e fossimo tutti accaldati come bigodini sotto il casco della parrucchiera. Vorrei sorvolare ma è mio dovere riferire questo particolare raccapricciante.
Ebbene, prima di mettersi le scarpe Athey… ha indossato un paio di gambaletti!!!
Non trovo giustificazione a un atto così profondamente inestetico, capisco che non poteva mettere i collant perché avrebbero ostacolato il seguito della performance, ma avrebbe almeno potuto scegliere le autoreggenti. Non sono raffinate né eleganti, ma sempre meglio dei gambaletti.

La vista di questi video mi ha causato uno choc notevole, ero così distante da questo tipo di arte da non trovare punti di riferimento, non riuscivo a riconoscere nulla di ciò che amo, qualcosa che indicasse l’esistenza di una continuità, un legame, anche se sostanzialmente rinnovato con il passato artistico che considero imprescindibile.
Vittima del mio stesso smarrimento, decido momentaneamente di accantonare l’indagine sulla videoarte, e rilassarmi con una lettura rassicurante come uno dei miei vecchi manuali di stregoneria.
Finalmente ritrovo il mondo familiare dove ogni cosa ha senso! E’ bello rileggere frasi antiquate e rasserenanti, concetti elementari che fanno parte del bagaglio culturale di ogni strega: filtri, tracce invisibili, chiavi di trasparenza, la Doppia Vista che consente di vedere il Piccolo Popolo… però che strano... il testo è in italiano ma anziché Doppia Vista c’è scritto Dual View, come mai? Controllo la copertina e mi accorgo di avere sbagliato libro, non è un manuale di magia, ho preso dallo scaffale il manuale di Premiere. Come ho potuto confonderli? Premiere non c’entra nulla con la magia, è un software per elaborare filmati, cioè video. Cosa possono avere in comune la magia e il video?
Per scoprirlo non ci resta che avventurarci nel fantasmagorico mondo della percezione.
Di solito pensiamo che quello che vediamo corrisponda alla realtà, anche se io non ho mai creduto a una cosa così bizzarra, ho sempre avuto l’impressione che la realtà sia soltanto un’interpretazione. Ero convinta che questa fosse una mia devianza personale, poi ho scoperto che le divergenze di percezione sono piuttosto diffuse, ognuno vede il mondo in modo diverso.
Prendiamo le rane. Queste gracidanti bestiole hanno nella retina dei ricettori “rivelatori di cimici”. Si chiamano proprio così, non chiedetemi chi ha escogitato questo nome, immagino sia stato un biologo con un oscuro passato nei servizi segreti.
Comunque questi ricettori non sono presenti nella retina umana e io sono curiosa: come sarà il mondo visto coi rivelatori di cimici? Nell’attesa di reincarnarmi in un girino non mi resta che chiederlo direttamente a una rana.
“Ehmmm... salve signora Rana.”
“Frog” (saluto ranesco)
“Bella giornata vero?”
“Decisamente sì, c’è un’umidità che farebbe venire i reumatismi a una spugna.”
“Scusi se la disturbo, sono qui per farle qualche domanda di carattere scientifico. E’ vero che voi batraci possedete dei rivelatori di cimici?”
“Certo cara e devo dire che sono molto comodi. Non servono soltanto per le cimici, funzionano con tutti gli animali piccoli, veloci e commestibili.”
“Ma gli insetti li vedo anche io!”
“Sì però tu li vedi normalmente inseriti nel contesto, mentre per noi rane è come se gli avessero passato sopra un evidenziatore fluorescente.”
“Quindi ciò che vedi tu è differente da ciò che vedo io, la tua realtà è diversa dalla mia... cos’è mai la realtà, cosa è veramente reale?”
“Certo che detto da una che parla con le rane è il massimo!”

Ma non sono l’unica ad avere una concezione personale della realtà. Vedere cose che non esistono è un’esperienza comune, una cosa che accade a tutti coloro che guardano il televisore. Simonetta Fadda scrive che “l’immagine video... è un fantasma”, non esiste.
Sullo schermo ci sono solo fasci fluidi e instabili di luce colorata.


Noi vediamo questo flusso di elettroni come immagini ma si tratta di illusione ottica: la persistenza retinica.
Se il destino spettrale dell’immagine video evoca castelli inglesi ed ectoplasmi, quello dell’immagine digitale è ancora peggiore. La sventurata immagine digitale non ha nemmeno la pallida evanescenza del fantasma perché esiste solo come algoritmo! Non so cosa sia esattamente un algoritmo, ma tutto ciò che comincia per alg- mi ricorda l’algebra e incute in me terrore.
Ricapitolando: l’immagine video è un fantasma, quella digitale un algoritmo, in progressione l’installazione video è una simulazione della realtà in cui si entra e si vive, un ambiente illusorio e contemporaneamente reale.
Improvvisamente questo mondo che sembrava prevalentemente tecnologico acquista ai miei occhi una valenza diversa e familiare; pensando a queste cose ho ricordato le leggende delle Highland.
Gli Scozzesi hanno grande familiarità con le fate, che non sono le stucchevoli fanciulle bionde dotate di bacchetta magica a cui ci ha abituato Walt Disney, ma creature potenti, misteriose e pericolose per gli esseri umani.
Nelle storie delle Highland si trovano avvertimenti molto utili in caso di incontri fatati; ad esempio non bisogna assolutamente accettare cibo o bevanda per non subire l’incanto ed essere fatti prigionieri. Sembra che le fate siano in grado di modificare la percezione umana della realtà, ciò che appare come uno splendido castello è una grotta, ci si crede seduti comodamente in casa di fronte al caminetto, e invece quando cessa l’incantesimo ci si scopre su una roccia a un passo dall’abisso.
Pensavo che queste incursioni dell’irreale nella realtà fossero prerogativa di creature antiche, invece scopro con piacere che sono praticate anche da artisti contemporanei. Strani legami si intrecciano tra i mondi.

La storia più curiosa che ho incontrato a proposito di questa intromissione della fantasia nel reale (e viceversa) è quella di Alberto Grifi e del suo film Anna. Il film è stato girato nei primi anni Settanta.
Cosa deve essere stato quel periodo! Io l’ho solo sfiorato, mi sono persa la musica di Bob Dylan, i figli dei fiori e l’illusione di reinventare il mondo. Mi è toccata la sfiga di crescere con la disco, i Bee Gees e Donna Summer. Però mi è rimasto qualche ricordo d’infanzia legato all’atmosfera creativa e fricchettona del tempo: i cartoni dei Beatles in tivu, le sorelle maggiori che si stiravano i capelli, si infilavano i jeans sdraiandosi sul letto e chiudevano la cerniera con le pinze trattenendo il fiato. Una luce di giovinezza e fiducia che pur senza coinvolgerci avvolgeva anche noi bambini più piccoli.
Alberto Grifi all’epoca è un perfetto esponente di questo periodo che ha saputo far convivere impegno e allegria: baffi da pirata, capelli lunghi,dolcevita a collo alto, aria scafata e divertita.
E’ un artista che usa diversi mezzi espressivi, dalla pittura al cinema. Tra i primi in Italia a usare il videoregistratore, è talmente precoce che dopo aver girato il film nel 1972 deve inventare una macchina per trascrivere il video su pellicola, perché le sale cinematografiche non erano attrezzate per proiettarlo. Ma i problemi tecnici sono soltanto una minima parte degli eventi contorti che vivrà il film di Grifi.
“Anna” è nato per raccontare la storia di una sedicenne incontrata da Massimiliano Sarchielli, una ragazzina incinta che vive sola per le strade di Roma. E’ un film povero e Grifi ha grosse difficoltà economiche durante la lavorazione. Dopo aver iniziato le riprese, decide di utilizzare dei videoregistratori per sostituire la telecamera tradizionale; in questo modo riesce a ridurre le spese per la troupe e a lavorare con molta libertà perché non si deve preoccupare per il costo della pellicola. I nastri del videoregistratore si possono riutilizzare diverse volte, così Grizi lascia accesa la telecamera molto più a lungo di prima, i tempi del film si dilatano, escono dallo spazio predefinito del film e si espandono nella vita reale fino a confondersi inestricabilmente con essa.
La realtà occupa ufficialmente il film quando l’elettricista di scena entra in scena, dichiara il suo amore ad Anna e i due vanno a vivere in una comune. Grizi però non si preoccupa più di tanto, risponde all’incursione con un’abile contromossa facendo entrare il film nella realtà, e parte alla ricerca dei fuggitivi filmando tutto quello che accade durante questo caotico inseguimento.
Tornando nel 2000 sono costretta ad ammettere che questa storia di vita che diventa arte per trasformarsi nuovamente in vita mi sembra davvero un film, e il mio cinismo post-trumanshow mi insinua qualche dubbio sul candore di tutta la vicenda. Ma questa volta non ho intenzione di ascoltare il mio cinismo, è troppo bella l’idea di questo regista che viene diretto dal film, e non si preoccupa per l’ammutinamento dei suoi personaggi ma al contrario si tuffa tra le onde magnetiche, ben felice di assecondare l’anarchia della storia. D’altronde se non sbaglio uno degli slogan dell’epoca era “la fantasia al potere”.
Oggi a volte ho l’impressione che la fantasia sia un prodotto già costruito, forse per questo mi riesce difficile credere che negli anni Settanta queste cose erano possibili. Se era davvero così mi sono persa qualcosa.
Comunque io non sono nostalgica, non conosco il significato della parola rimpianto... forse è questo il motivo per cui ogni volta che compro le pianticelle di basilico e le ripianto nei vasi grandi dimenticando la emme, i poveri vegetali si seccano così in fretta che dopo due giorni sembrano una foresta pietrificata in miniatura.
Per vivere l’arte del mio tempo mi riposiziono alla Biennale.
Adoro i padiglioni dei Giardini, la prima volta che li ho visti mi hanno folgorato, luminosi, impeccabili, perfino solenni, architetture bizzarre come grandi uova di immensi uccelli esotici deposte nella città più straordinaria del mondo. E’ bello ritrovare questi edifici ogni volta più ammaccati, come se si dissolvessero lentamente nella luce, ho l’impressione che stiamo invecchiando insieme.
Voglio verificare le mie irriflessioni sulla videoarte, ai Giardini i video non mancano e alcuni mi piacciono come quello del padiglione giapponese.
Tuttavia nonostante i miei attorcigliati percorsi mentali tra me e la videoarte permane una certa freddezza, non ho mai visto un video che mi abbia colpito in profondità come accade invece con altre opere, ad esempio il lavoro di Rùrì (chiedo scusa all’artista, sono costretta ad inclinare i suoi accenti al contrario per evitare allucinanti intromissioni di icone aliene, possiamo sempre fingere che la colpa sia del vento di Islanda... )
E’ il mio destino e lo devo accettare: ho il videokarma negativo, posso conoscere questo tipo di arte ma non la posso amare.
Mi aggiro nel padiglione Italia cercando di capire dove devo andare. Il percorso è un attentato alla logica, direi che la precisazione di Bonami “Ritardi e rivoluzioni” è il sottotitolo adatto per questo edificio a pianta bislacca, infatti si ritarda moltissimo cercando di orientarsi tra i rivolgimenti delle stanze. Nel tentativo di raggiungere tutte le opere esposte nel padiglione, ho visto sette volte le pillole di Damien Hirst (certo che ha un modo stravagante di conservare i medicinali, io li tengo dentro ai vasetti originali e occupano meno spazio, anche se l’effetto non è altrettanto placebo). Oramai odio i tavoli di Matthew Barney, li incontro ovunque, disseminati lungo il percorso da cui non riesco più a fuggire, potevano sistemarne uno solo nello sgabuzzino del custode e mi avrebbero evitato traumi irreversibili.
Comincio a sentirmi stressata quando in un angolo luminoso e accogliente vedo un video dal quale un vecchio amico mi sorride. Di fronte allo schermo ci sono alcuni gradini, mi siedo assieme a altre persone ipnotizzate dal suo sguardo magnetico.
E’ un lavoro di Andy Warhol, non è proprio il mio artista preferito, ma devo riconoscere che non ha ceduto alla tentazione di aggiungere nulla, aveva a disposizione un materiale straordinario e ha saputo ottenere il massimo limitando al minimo il suo intervento.
Il video mostra in primo piano il viso di Marcel e lo riprende per diversi minuti. Duchamp non dice nulla, ogni tanto beve, fuma, si volta verso qualcuno fuori campo. Forse gli ricordano che ha promesso di non parlare durante la ripresa e lui accetta divertito.
Il video è tutto qui, è un ritratto, un omaggio, un documento. Ho sempre considerato Warhol una persona gelida ma in questa breve opera è impossibile non avvertire un affetto profondo nella ripresa semplice che trasmette un’immagine complessa ma non costruita. Ci sono dentro arte e storia dell’arte, riunite in un signore garbato che frequentava il club degli scacchi e il cui pensiero ha allegramente incasinato il nostro destino iconografico.
Andy Warhol ha colto con semplicità la grandezza di Duchamp e mi ha dimostrato che si può amare anche un video.
Marcel Duchamp

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